Che senso ha il dolore nella nostra vita?
Si può imparare a vivere il dolore?
Qual è la condizione che meglio favorisce l’elaborazione del dolore: la solitudine, oppure la presenza di qualcuno?
Una cosa mi appare certa della vita: ed è che tutto è in cambiamento!
Il cambiamento
È inevitabile vivere il dolore quando avviene il cambiamento di ciò che io vorrei rimanesse stabile.
Ci ho impiegato del tempo ad accettare l’idea che il dolore è una parte inevitabile della vita. E oggi, quando gli eventi mi investono come dei treni, il mio impegno è nel cambiare la qualità delle domande che mi pongo: dal chiedermi: “ma perché proprio a me?”, oppure: “come posso mettere fine a questa sofferenza?”, mi chiedo invece: “come posso collaborare con l’inevitabile?”.
Come si fa a vedere nel dolore la presenza di un dono e fidarmi del significato che porta con sé?
Vivere il dolore
Imparare a vivere il dolore non è solo una capacità che si può apprendere e allenare.
È molto di più.
Imparare a vivere il dolore è assumere una nuova postura di cuore verso la vita, verso gli eventi che sono capitati e che potranno capitare, verso la nostra fragilità e verso quella degli altri.
Imparare a vivere il dolore ristruttura non solo la visione di ciò che è stato nel passato, ma anche la nostra visione del futuro.
L’obiettivo del dolore (a differenza dell’obiettivo della nostra mente quando lo viviamo, che è quello di fuggirne al più presto), è la sua espressione: il dolore è lì per essere vissuto pienamente.
E mentre non abbiamo nessuna resistenza (anzi) a immaginare di vivere una gioia talmente grande da “esplodere”, abbiamo invece una serie di resistenze, valutazioni e giudizi su quanto sia inopportuno e sconveniente vivere ed esprimere liberamente il dolore.
Sentire il dolore
Il dono che il dolore ci porta non ha a che vedere con la “comprensione”. Il dolore è un dono che reclama lo spazio del “sentire” e si esprime nell’intensità.
Ho letto che in Nigeria ci sono professionisti del dolore e del lutto, pagati per piangere, digrignare i denti e strapparsi i vestiti quando viene sepolta una persona importante per la comunità.
L’usanza di persone che piangono il dolore ai funerali era usata anche in tempi recenti nell’Italia meridionale e si è conservata almeno fino agli anni ’50.
A prima vista si potrebbe pensare che questo tipo di pratica sia “inautentica”. Eppure gli antichi sapevano che il dolore non può essere separato dall’espressione di dolore.
Se separiamo il dolore dalle espressioni di dolore, se cerchiamo solo di verbalizzare il dolore per cercare di arrivare al suo nucleo autentico perché vogliamo capirlo, si rischia di uscire dalla dimensione umana e disumanizzare la nostra esperienza.
Il dolore è sempre sperimentale, è sempre esperienziale, è sempre carnale, è sempre intensità.
Condividere il dolore
Credo sia stato Martin Prechtel a dire “grief needs community”, “il dolore ha bisogno della comunità”.
Adoro pensare che il dolore abbia bisogno della dimensione collettiva.
Ho bisogno di comunità per condividere la mia tristezza, la mia delusione, la mia confusione, il mio risentimento, il mio odio.
Ho bisogno di umani che mi ascoltino e testimonino il suono del dolore che mi abita, in modo che io possa fare esperienza di avere attraversato e vissuto pienamente, liberato ciò che sento, e che questo è stato ricevuto da qualcuno, ascoltato e testimoniato.
Non sono sicura sia possibile elaborare il dolore senza testimonianza: il dolore rivendica lo spazio in comune.
Ecco perché credo così profondamente nella comunità, da promuovere ogni anno la nascita di gruppi di persone che condividono insieme una crescita: impariamo a soffrire, insieme.